La sorte dei contratti di locazione registrati per un canone inferiore a quello realmente corrisposto.
Più volte la giurisprudenza si è interrogata circa la validità o meno dei contratti di locazione registrati per un canone inferiore a quello che viene realmente pagato e dei conseguenti accordi che prevedono il versamento di un ulteriore emolumento “in nero”. Tale fenomeno, piuttosto diffuso, si verifica quando locatore e conduttore, dopo aver indicato un determinato canone di locazione nel contratto destinato ad essere registrato, concludono un ulteriore accordo – tendenzialmente destinato a rimanere “riservato” tra le parti – con cui fissano un importo maggiore che il conduttore dovrà corrispondere periodicamente al locatore. Tutto ciò, come ben si intuisce, al fine di sottrarre all’imposizione fiscale la parte del corrispettivo ulteriore rispetto a quella prevista nel contratto registrato.
A tal riguardo è necessario porsi due distinti interrogativi: in primo luogo, se tali pattuizioni siano da ritenersi valide ed efficaci o radicalmente nulle; in secondo luogo, qualora si propenda per la nullità di detti accordi, se anche il contratto sottoscritto e regolarmente registrato per un canone inferiore a quello reale sia affetto da nullità.
Le normative che vengono in rilievo sono la legge n. 431 del 1998, nonché la Legge Finanziaria 2005. In particolare, la prima stabilisce che “è nulla ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato”. La seconda prevede che “i contratti di locazione … di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati”. Sono disposizioni all’apparenza molto chiare, ma la cui applicazione concreta si è rivelata a dir poco tormentata.
Infatti, negli ultimi anni si sono formati numerosi orientamenti contrastanti. Una prima interpretazione riteneva che l’accordo con cui le parti fissavano l’importo maggiore della locazione fosse pienamente valido ed efficace se intervenuto contestualmente alla sottoscrizione del contratto, mentre era da considerarsi nullo se interveniva in un momento successivo. Un secondo orientamento riteneva in ogni caso nullo l’accordo integrativo e faceva salvi gli effetti del solo contratto registrato. Infine, un ultimo e più severo orientamento riteneva che la nullità dell’accordo colpisse l’intera pattuizione, con conseguente invalidità anche del contratto di locazione registrato.
La questione, dall’evidente risvolto fiscale oltre che civilistico, giunta per l’ennesima volta in Cassazione, è stata recentemente portata all’attenzione delle Sezioni Unite che, con Sentenza n. 18213 del 17 settembre 2015, hanno offerto una soluzione argomentata e non scontata.
Innanzitutto, le Sezioni Unite hanno stabilito che la validità dell’intero negozio (contratto di locazione e accordo integrativo sui canoni) non può dipendere da un adempimento di carattere tributario quale quello previsto dalla Legge Finanziaria del 2005 sulla registrazione.
Sgombrato il campo dalla possibilità di ritenere nullo l’intero negozio, i Giudici hanno chiarito che la presenza di un contratto “ufficiale” e di una successiva controdichiarazione di contenuto modificativo non deve far pensare a due diverse e materialmente separate convenzioni negoziali poiché, in realtà, l’atto stipulato deve considerarsi unico. Infatti, l’accordo che prevede un canone maggiore non è altro che una integrazione del “primo” contratto, realizzata al solo scopo probatorio di ricostruire la volontà delle parti in caso di controversia. Infatti, con detto accordo il locatore si “precostituisce” una prova sul reale valore di quanto il conduttore deve corrispondere.
Pertanto, la Corte ha ritenuto che la volontà del legislatore, espressa nella legge n. 431 del 1998, fosse quella di sanzionare con la nullità la sola previsione occulta di una maggiorazione del canone, restando invece pienamente valido il contratto regolarmente registrato.
Inoltre, le Sezioni unite hanno affermato che in detti casi sarebbe del tutto ininfluente la registrazione a posteriori (tardiva) dell’accordo di maggiorazione del canone, in quanto costituente un accordo simulatorio, contrario allo spirito della normativa vigente. Quindi, concludono i Giudici della Suprema Corte, se si consentisse al locatore di recuperare somme che, grazie alla mancata registrazione del contratto, egli aveva cercato di nascondere al fisco, si svilirebbe la ratio dei suddetti interventi normativi, volti a punire severamente l’evasione fiscale.
In conclusione è da ritenersi nulla ogni pattuizione ulteriore che preveda la corresponsione di un canone di locazione maggiorato rispetto a quello indicato nel contratto registrato. Conseguentemente il conduttore avrà la possibilità di esercitare l’azione di ripetizione, al fine di ottenere la restituzione delle somme versate in maniera superiore rispetto al canone dichiarato nel contratto registrato. Tale richiesta potrà essere esperita in qualsiasi momento della durata del rapporto di locazione, ma comunque nel termine di sei mesi dall’effettivo rilascio dell’immobile locato.
Autore: avv. Pierluca Broccoli – Consulente legale Confabitare